Semi al vento - Forum di incontro e discussione

Speciale lavoro: Il nome della nostra bellezza, Gianna Mazzini

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view post Posted on 5/12/2012, 20:20     +1   -1
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"Altre voci" su un argomento che ci riguarda molto da vicino, tutti, e che è e sarà ancora motivo di preoccupazione e riflessione.
Una visione buddista di questo scottante e attuale tema.


Il nome della nostra bellezza
di Gianna Mazzini

Le parole sono importanti. Alla radice del termine lavoro c'è l'idea di un'attività che può essere penosa o creativa, e si è precari quando si ottiene qualcosa per concessione. Ma noi siamo soprattutto Myoho-renge-kyo, il nome della nostra potenza e illimitata possibilità




Che momentaccio, che difficoltà, proprio ora, qui. Far corrispondere alla fatica il valore.
È davvero un momento difficile per parlare di lavoro, ma "straordinariamente" adatto. Perché non c'è persona che io conosca che non stia attraversando un momento di ridefinizione del proprio lavoro: o perché il senso di quel che faceva sta cambiando o perché il lavoro non c'è più.
Vi propongo un giro.
Provare a entrare nel tema passando dalla parola, entrando nell'origine stessa della parola "lavoro".
C'entrano le parole con la vita? Il modo in cui io definisco qualcosa può, in qualche modo, orientare e influenzare l'idea che di quella cosa mi faccio?
Prendiamo la parola "precarietà".
"Precario" è "qualcosa che non dura". È una parola dolorosa, che produce in chi la vive una percezione di sé labile e impotente. "Precarietà" non è solo una parola, è uno stato d'animo, invasivo e avvolgente. Chi si sente precario, precaria, sente un'incertezza che va oltre il fatto di non avere un lavoro a tempo indeterminato. Guardiamo l'origine.
"Precario" viene da prex, prece che significa "preghiera" e ha due significati:
1. ottenuto per preghiera, cioè che si esercita con permesso altrui;
2. che non dura sempre ma quanto vuole il concedente.
Terribile no? Ecco perché è una parola così dolorosa. Anche se non lo so, quando mi sento precaria è questo che sento: dipendere totalmente da una concessione esterna e per un tempo che qualcun altro decide per te. Ecco spiegata quella sensazione.
Andare alla radice di una parola non è mai esercizio fine a se stesso perché le parole trattengono il senso, anche quando vengono usate con un altro significato.
Anche quando noi non ne siamo consapevoli.
Ora possiamo iniziare il giro dentro la parola "lavoro".
Troviamo subito due filoni: il primo viene dal latino labor e si rifà all'idea di lavoro come attività dura e penosa (da qui il francese travail, lo spagnolo trabajo, il portoghese trabalho), parole che derivano tutte da uno strumento di tortura, il tripalium (struttura fatta di tre pali incrociati usata per immobilizzare il condannato, n.d.r.).
Il secondo invece si rifà alle lingue anglosassoni e privilegia l'idea di energia, forza fisica, frutti del lavoro (da cui il tedesco werk e l'inglese work). In questo secondo filone prevale l'idea di lavoro come attività produttiva, creazione di opere e di ricchezza. Non c'è dubbio che la nostra cultura abbia privilegiato il primo dei due: lavoro come attività dura e penosa. Con quel conseguente senso di espiazione, di lavoro inteso come lo svolgimento di un compito staccato dalla mia persona, che mi riguarda solo se è il lavoro che ho sempre sognato, altrimenti no, è solo un modo per guadagnare da vivere. Allora via appena timbrato il cartellino e tutta quella somma di «perché non vedono il mio valore?», «cosa ci sto a fare qui?» e simili che ciascuno può avere incontrato almeno una volta facendo il proprio mestiere.
Va bene, il lavoro è costruzione di sé quando è quello che ho desiderato fin da bambina, quando riesco a viverci bene, quando mi arricchisce e nutre e fa crescere.
Ma se non è così?
Quando il lavoro è davvero pesante, quando non è il lavoro sognato, quando non è un bel lavoro e quel che facciamo sembra non avere nessun senso?
E soprattutto: quando l'abbiamo perso e il lavoro non c'è più, come si fa?
Ecco, vorrei parlare di questo.

«Ad Auschwitz - è Primo Levi che scrive - ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del "lavoro ben fatto" è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale» (Conversazioni e interviste, a.c. di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997).
Questo passo, terribile e bellissimo, dice una cosa vera.
Dice che il lavoro è un'espressione di sé, è opera di sé. O, per dirla con l'economista Luigino Bruni, «che il lavoro è sempre attività spirituale, perché prima e dietro una qualsiasi attività lavorativa, che sia una lezione universitaria o la pulizia di un bagno, c'è un atto intenzionale di libertà, che è ciò che fa la differenza tra un lavoro ben fatto e un lavoro fatto male. Ed è quindi attività umana altissima in ogni contesto nel quale si compie» (Il lavoro e le lenti sbagliate, http://edc-online.org).
Attività umana altissima.
Come amare, pregare, respirare.
Nel sesto volume del Sutra del Loto si legge: «Nessuna cosa che riguardi la vita o il lavoro contrasta in alcun modo con la vera realtà» (citato in L'offerta del riso, RSND, 1, 998).
Vale a dire che la "vera realtà" attraversa, bagna, pervade le stanze nelle quali lavoriamo, le relazioni che incontriamo. Sta dentro le cose che facciamo, i pensieri, le parole e i gesti.
Il Buddismo lo dice così: anche se nessuno mi vede, ogni gesto, ogni attenzione e cura che metto in quello che sto facendo esiste, resta, si registra, si incide come causa che determinerà un effetto, anzi l'ha già determinato.
Ogni gesto è un mattone del lavoro più importante di tutta la vita: la costruzione di sé.
Come posso pensare di ricavare da quel che faccio l'opera di me?
E soprattutto, mentre faccio quest'opera di me riesco a mangiarci, a pagare l'affitto, a gioire di qualche orizzonte più largo, che so un viaggio?
Scrive il presidente Ikeda: «Ho lavorato per tutta la vita. Anche quand'ero un ragazzino, lavoravo veramente duro. Mio padre era debilitato dai reumatismi e i miei quattro fratelli maggiori furono arruolati nell'esercito uno dopo l'altro. Ero il più grande dei figli rimasti in casa e per questo mi alzavo prima dell'alba e aiutavo la mia famiglia nella coltivazione di alghe. Finito quel lavoro, cominciavo con il giro dei giornali. Una volta tornato a casa da scuola, andavo a consegnare il giornale della sera. Il verbo giapponese che significa "lavorare" (hataraku) etimologicamente indica "dare sollievo" (raku) alle persone che ti circondano (hata). Potevo percepire la verità di queste parole già da molto giovane.
Parte del mio lavoro era inoltre consegnare al grossista le alghe marine raccolte dalla mia famiglia. Mi ricordo che gli dicevo con orgoglio: "Le alghe coltivate dalla mia famiglia sono le migliori" e lui rispondeva: "Lo sono di sicuro"» (BS, 141, 50).
Ogni volta che leggo le parole del mio maestro sento uno spostamento del cuore.
E un allargamento di prospettiva anche. Tutte le costruzioni, tutti i pensieri, anche belli, fatti fino a quel momento s'infragiliscono e lasciano spazio a un punto di vista semplicemente cristallino. Lavorare è dare sollievo a chi ti circonda. Nell'idea stessa del lavoro c'è non solo la possibilità di una creazione di sé ma di creazione di mondo.
Spunta evidente, come un improvviso dietro l'angolo, l'ingratitudine.
Che non vuol dire non vedere le cose che mi accadono o darle troppo per scontate, vuol dire proprio dimenticarsi che essere buddisti, buddiste obbliga a un cambiamento del punto di vista sulle cose. Questo per me non è un momento facile, faccio un lavoro che ha a che fare con la cultura e in tempi di crisi la cultura si taglia, zac, serve altro, cose che si toccano. È un momento in cui sembra non muoversi nulla, pochi progetti, poche certezze.
Potrei attaccarmi già a questo per manifestare ingratitudine nei confronti della vita che così poco tiene in conto ciò che per me conta di più.
L'ingratitudine è la base da smantellare per vincere. Non è un dettaglio, è il centro.
Occasioni per manifestarla, l'ingratitudine, si nascondono ovunque: le difficoltà con chi comanda, con chi ci lavora accanto, una retribuzione scarsa, insomma tutto ciò che può produrre uno svilimento di sé. La crisi dice che non c'è lavoro, che «se tu rifiuti questo ne trovo altri cinquanta che lo fanno, magari anche per meno». «Tu non conti, tu non fai la differenza».
La filosofa Simone Weil, in un suo pezzo commovente scritto molti anni fa, lo spiega bene quando dice che potenti e sottoposti, scienziati e quadri, tecnici e impiegate, bagnini e commesse, tutti, tutte, egualmente soggiacciamo alla più grande delle oppressioni: l'insignificanza della nostra unicità, la sensazione di non poter incidere, essere dimenticabili, alternabili, sostituibili. Pezzi di ricambio usa e getta.
E questo è il momento storico di massima espressione di questo modo di intendere la vita. Massima espressione ma anche massima crisi.
Il mondo intero sta cambiando, non solo io.
Siamo a un passaggio epocale. A un punto di non ritorno in cui pensare di tamponare anziché cavalcare il cambiamento non è una scelta vincente. Nei periodi storicamente più tranquilli ognuno, ognuna di noi cambia a un ritmo e in momenti differenti. Poi ciclicamente accade, qua e là nel tempo, che si addensino curve molto più grandi: cambiano gli equilibri, cambiano i problemi, cambia il mondo, si cambia tutti insieme.
E questo è uno di quei momenti.
Usare massimamente la crisi per cambiare quello che di me non ho ancora cambiato, pregare come non ho mai fatto, non per farcela, per sfangarla, ma per vincere.
La realtà non è un macigno inamovibile, è la vita che cambia in ogni istante, e anche ora sta accadendo, la realtà, proprio ora mentre scrivo, sta cambiando.
Che fare?
Pregare e fare qualsiasi cosa al meglio come quel muro di cui parla Levi.
Perché «nessuna cosa che riguardi la vita o il lavoro contrasta in alcun modo con la vera realtà». Il lavoro è un'attività umana altissima in ogni contesto nel quale si compie. Anche nel più oscuro e avvilente dei momenti c'è la possibilità di incidere e cambiare, ridisegnarne i tratti e abbellire.
Vi ricordate il potere delle parole?
Che se mi sento precaria, sono tutto quello che quella parola significa, cioè "dipendente da un potere altrui per un tempo che quell'altrui decide". Che se mi sento povera sono incapace di comprare le cose e persino di desiderarle. Ma prima di essere precario e precaria, povero o povera, io sono soprattutto Myoho-renge-kyo. Dunque perfettamente dotato, dotata. Immensamente potente, immensamente capace di cambiare e di far felice me e gli altri. Profondamente consapevole che le difficoltà che incontro sono la mia missione.
Lo svilimento di sé sembra sempre venire da fuori, eppure non è così: la sfiducia nel proprio valore parte sempre da dentro.
Riprendo a desiderare. Io sono Myoho-renge-kyo. Noi siamo Myoho-renge-kyo. E Myoho-renge-kyo è il nome della nostra bellezza.
Si tratta di riappropriarsi della propria umanità: e questo si fa pregando.
Se l'ingratitudine spunta improvvisa e automatica, il valore di me, invece, lo devo andare a cercare. È un'azione pervicace, silenziosa, testarda, da ripetere ogni giorno. L'ingratitudine sta nell'ottava coscienza, è la somma di ripetute reazioni a quello che non capisco. La Buddità sta nella nona, più giù, più profonda, più felice, la stessa per tutti.
Lì va cercata quella sensazione di potenza e illimitate possibilità capaci di aprire le porte chiuse, gli spiragli dove non passa più luce e inventare strade dove non ce ne sono.
Allora quello che faccio io quando lavoro sarà hataraku: "portare sollievo a chi mi circonda" e anche ricevere in cambio un valore.
Perché il mondo cambi (e perché io vinca) si passa di qui: dalla fede.
Pregare e fare qualsiasi cosa al meglio, magnifico programma.
I gesti da fare: i migliori possibili qui dove sono.


Buddismo e Società n.155 novembre dicembre 2012
 
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view post Posted on 14/12/2012, 13:35     +1   -1
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Una nuova visione del mondo

di Maria Lucia De Luca


È il momento di una svolta epocale: lo dice il Buddismo, ma non è il solo. Occorrono altri strumenti per analizzare le cose che accadono e sistemi di pensiero diversi per ridefinire le priorità, sostituendo all'egoismo la compassione e così valorizzare le capacità di tutti

Voglio osare.
Voglio avere il coraggio di provare ad aprire la porta della gravissima situazione attuale (la mancanza di lavoro, l'impasse economica e politica, l'incertezza del futuro...) infilando nella serratura la chiave buddista di "la crisi è un'occasione" ed esplorando nuovi scenari.
Nel documentarmi per preparare questo speciale ho verificato che non solo il Buddismo ma in generale le persone di buon senso e anche le menti più avanzate del nostro pianeta ritengono che quello presente sia il momento di una svolta epocale e che non sia più possibile adottare i soliti schemi. Quindi non è fuori dal mondo chi la pensa, diciamo così, in modo "buddista" bensì - come purtroppo succede spesso anche a noi che pratichiamo - chi cade nel solito cliché della lamentela, dell'impotenza o della rivendicazione, per quanto la sua voce possa essere amplificata, martellante e in armonia con un vasto coro.
Scrive il Daishonin: «Saggio non è chi pratica il Buddismo prescindendo dalle questioni mondane, ma chi comprende perfettamente i principi che governano il mondo» (Il kalpa della diminuzione, RSND, 1, 995).
Nichiren parla di comprendere i principi che governano il mondo. A tale proposito vorrei riportare alcune idee di Daisaku Ikeda tratte dall'ultima Proposta di pace, analizzandole in parallelo a qualcuna delle molte visioni e proposte che a livello globale mi sembrano vicine alla prospettiva buddista. Ikeda suggerisce l'utilizzo del trattato del Daishonin Adottare l'insegnamento corretto per la pace del paese, scritto nel 1260, come un «sistema di pensiero attraverso il quale inquadrare la situazione contemporanea» (BS, 152, 12) e considera particolarmente rilevanti tre aspetti:
1. la centralità dell'empowerment: «La necessità di credere nelle possibilità illimitate dell'essere umano, [...] la fede nell'asserzione che ogni persona possiede un potenziale infinito e ha la capacità di far emergere la propria unica ed essenziale dignità» (BS, 152, 18);
2. la coscienza della nostra interconnessione: «Per Nichiren l'unica strada percorribile per uscire dal vicolo cieco in cui si trovava la società era che le persone credessero nelle reciproche capacità e lavorassero insieme per farle emergere» (Ibidem);
3. il ruolo dello Stato: «Le massime priorità dello Stato devono essere il benessere e la sicurezza delle persone comuni. [...] Chi è al potere deve essere le mani e i piedi del popolo» (BS, 152, 13).
È bello scoprire che nel mondo tante persone la pensano così.
Rispetto al primo punto, ad esempio, ho letto nel documento finale della Conferenza di Lisbona, nel corso della quale si tracciarono le linee guida per la realizzazione di una cosiddetta "società della conoscenza": «Le persone sono la principale risorsa dell'Europa e su di esse dovrebbero essere imperniate le politiche dell'Unione. Investire nelle persone e sviluppare uno Stato sociale attivo e dinamico sarà essenziale per la posizione dell'Europa nell'economia della conoscenza nonché per garantire che l'affermarsi di questa nuova economia non aggravi i problemi sociali esistenti rappresentati dalla disoccupazione, dall'esclusione sociale e dalla povertà» (Consiglio europeo di Lisbona 23-24 marzo 2000, conclusioni della presidenza, www.europarl.europa.eu/summits/lis1_it.htm).
Investire sulle persone, e non in Borsa. Investire in competenze, capacità. In quelle che l'economista indiano Amartya Sen, premio Nobel 1998, definisce "capacitazioni", le qualità individuali che permettono di scegliere e costruirsi la vita che si ritiene di maggior valore. Contrastare la crisi globale vuol dire quindi combattere l'"incapacitazione" e non la semplice scarsità di reddito; quello di cui abbiamo bisogno è la libertà di poter usufruire delle risorse strumentali per autorealizzarci.
La società, lo Stato, dovrebbero quindi avere come maggior preoccupazione quella di far sì che i cittadini siano messi in grado di manifestare le loro qualità uniche, perché questo ritorna a tutti. Le capacità personali sono "patrimonio dell'umanità", un bene comune e non una semplice merce di scambio, un mezzo che serve unicamente per guadagnarsi da vivere o per ottenere una gratificazione individuale.
Nella mia quasi trentennale esperienza lavorativa ho verificato quanto sia facile svalutare la propria attività e utilizzare il proprio patrimonio di capacità solo come qualcosa che si fa per qualcun altro dal cui giudizio si dipende sia materialmente (soldi) che spiritualmente (alta o bassa considerazione di sé in base alle valutazioni altrui). Quanto è facile allora sentirsi inutili, non considerati, mettersi l'uno contro l'altro e cadere nel tranello del rancore e della lamentela.
«Devi essere tu a dominare il tuo lavoro - scriveva anni fa il presidente Ikeda - senza lasciare che sia il lavoro a dominarti. Se manchi di iniziativa, o se il tuo impiego non ti ispira abbastanza, significa che sei schiavo del tuo lavoro. Quando le cose si fanno difficili puoi facilmente perdere di vista il nodo centrale del tuo lavoro. Anche questo significa essere schiavi. Quando sei sufficientemente sicuro di cosa devi fare, conosci le responsabilità che ti devi assumere e hai chiare in mente le cose più importanti, a quel punto puoi essere certo di controllare pienamente il tuo lavoro» (NR, 115, settembre 1991).
Lavorare con gli altri e non per gli altri - come insegna Wangari Maathai, premio Nobel per la pace e fondatrice del movimento della Cintura verde, i cui appartenenti grazie alla sua ispirazione hanno piantato quaranta milioni di alberi in poco più di trent'anni (cfr. BS, 152, 23) - permette di superare il senso di impotenza, lo spirito rivendicativo e di conflitto, per sentirsi parte indispensabile di un progetto e di una comunità, che sia un luogo di lavoro, un quartiere, una città, uno Stato, il mondo intero.
Sviluppare la coscienza della nostra interconnessione - il secondo punto evidenziato da Ikeda - ci fa rompere il guscio dell'individualismo e della competitività sfrenata, consapevoli che la cooperazione sociale rende possibile per tutti una vita migliore di quella che chiunque potrebbe avere se dovesse vivere unicamente in base ai propri sforzi. Penso alla produzione comune di ricchezza attraverso lo scambio e il sostegno reciproco, all'economia delle famiglie e delle comunità. Sia retribuita che gratuita, che comprende tutto ciò che crea valore, ricchezza, felicità.
Sono queste ad esempio le conclusioni del cosiddetto Rapporto Stiglitz (Rapporto della Commissione Sarkozy sulla misura della performance dell'economia e del progresso sociale, stilato dai Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen e dall'economista Jean-Paul Fitoussi nel 2008-2010) nel quale si associa il benessere non al volume della produzione dei beni o esclusivamente al lavoro retribuito, ma a molti altri fattori definiti nonmarket, come la capacitazione, la salute, la qualita delle relazioni sociali e dell'ambiente.
Una comunità saldamente interrelata e cooperativa - nella quale ogni componente ha una forte coscienza di sé e della propria unica funzione - riesce inoltre a rispondere a situazioni di crisi in modo "resiliente" (cfr. pp. 16-17), riorganizzandosi cioè per trovare nuovi e migliori equilibri utilizzando lo specifico contributo di tutti. Un noto Rapporto della Commissione sulla sicurezza umana dichiara che la domanda principale di ogni iniziativa per la sicurezza umana dovrebbe essere non cosa si può fare ma quanto questa attività si basa sull'impegno e le capacità delle persone direttamente interessate (cfr. BS, 152, 18).
Questo porta all'idea di uno Stato sociale non assistenziale ma di supporto e promozione della capacitazione individuale. Uno Stato che sia "madre" nel senso di "madre terra", che nutre e fa crescere chi la abita. Non è un caso che la radice della parola "felicità" viene dal prefisso indoeuropeo fe, da cui deriva fecundus, femina (in quanto generante), tanto che i latini parlavano di terra felix quando la stagione era stata fertile (cfr. Si può essere felici da soli?, Intervista a Salvatore Natoli, http://dipeco.economia.unimib.it/Persone/B...vistanatoli.pdf).
Una madre desidera che i propri figli siano felici e facciano emergere il meglio di sé; maschi o femmine, possiamo sentirci "madri" in ogni ambito, anche alla testa di un'azienda o nel coordinare un gruppo di lavoro: posso testimoniare in prima persona che i risultati sono al di là di ogni previsione e questa è la cosa più appagante. Scrive il presidente Ikeda: «Tutti noi siamo i beneficiari dei grandi doni spirituali dell'amore e della compassione materna. La compassione di una madre è direttamente legata alla preoccupazione e alla gentilezza amorevole del Budda nei confronti di tutti gli esseri viventi. Sperimentare l'amore e la compassione di una madre equivale a sperimentare il cuore del Budda» (BS, 147, 42).
Se cambia il cuore delle persone cambiano le loro azioni. Si tratta in definitiva di passare - sia a livello individuale che dell'intera società - dalle logiche dei mondi di Avidità (letteralmente degli "spiriti affamati": «una dolorosa brama di qualcosa che non si può ottenere [...] che brucia e divora, consumando il corpo e la mente»), Animalità (la legge della giungla: «È nella natura delle bestie minacciare il debole e temere il forte») e Collera (l'egoismo e la sopraffazione, «l'irresistibile impulso a prevalere su chiunque altro»), stili di vita che "avvelenano" gli esseri umani e li separano gli uni dagli altri, alla coscienza dell'interrelazione caratteristica del mondo di Bodhisattva. «Il sé è nello stato di Bodhisattva quando tutte le sue migliori qualità - intelligenza, saggezza, amore, determinazione, coraggio - si fondono assieme all'energia della compassione per il desiderio di far bene agli altri. L'altruismo è il mezzo più efficace per la realizzazione e il perfezionamento di se stessi. Fare del bene agli altri è il modo migliore per perfezionare il proprio carattere e per trovare una maggiore felicità per se stessi» (Daisaku Ikeda, La vita mistero prezioso, pp. 108 e 139).
La parola "responsabilità" indica l'abilità o capacità di rispondere. Siamo a un bivio: possiamo trasformare quella che le scritture buddiste - e anche la visione attuale - descrivono come "l'epoca delle dispute e dei conflitti" nel tempo della fioritura della felicità e dell'armonia, oppure lasciar andare tutto in rovina. Nel Gosho Sulla profezia del Budda Nichiren Daishonin dichiara che «i grandi presagi», le catastrofi e gli strani eventi che accadono sono i segni che le dottrine della Legge suprema stanno sorgendo o andando in declino. Fa tale affermazione perché è questo il tempo dell'entrata in scena dei Bodhisattva della Terra che lottano per diffondere l'ideale della dignità della vita e del rispetto di ogni essere umano: tutto dipende dal loro senso di responsabilità, dalla loro decisione di indirizzare il futuro in un senso o in un altro.
Più il periodo è difficile, più dobbiamo tornare alla nostra visione del mondo e lavorare per realizzarla. Tante brave persone nel mondo se lo aspettano e non vedono l'ora di collaborare.


Buddismo e Società n.155 novembre dicembre 2012
 
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Rileggere questi articoli va oltre "la religione" raggiunge l'essere umano nella sua interezza.
 
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Vero Flo', ho avuto il desiderio di rileggerli per ritrovare "un senso" che troppo spesso, nel frastuono della vita quotidiana, si diverte a giocare a nascondino. <3
 
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